VOGLIAMO MANDARE IN TILT IL REGIME? di Paolo Andreozzi

25 10 2010

Vogliamo mandare in tilt il regime ?

Ma prima chiariamo un punto: cosa tiene in piedi una forma di governo qualsiasi ?

 

Alla fine, vuoi o non vuoi, il consenso – dei cittadini, o perfino dei sudditi.
Perché senza il consenso della maggioranza – o quanto meno, senza il consenso di una quota dei cittadini e l’indifferenza di un’altra quota che insieme fanno la maggioranza – perfino il governo più autoritario non sta su.
Che poi il consenso degli uni e l’indifferenza degli altri si debbano alla disinformazione o alla semplice paura, o a entrambe, non importa: qualunque governo morirebbe in breve di asfissia se la maggioranza delle persone su cui domina non collaborasse, o se addirittura gli remasse contro, smettendo di produrre di consumare di contribuire di rispettare le leggi eccetera eccetera eccetera.
Tra i moltissimi esempi della Storia, qui cito soltanto la resistenza passiva (aggettivo mai accettato da Gandhi, ma ormai passato per buono nell’opinione diffusa) grazie alla quale l’India si rese indipendente dall’Impero Britannico: trecento milioni di indiani smisero di collaborare con gli inglesi, e gli inglesi dovettero filarsela.

Ora, in quale maniera gli italiani che non si riconoscono in questo governo – che definire regime non è più azzardato – potrebbero rendere concreta questa strategia di non-collaborazione ?
Semplicemente rifiutando il modello antropologico che Berlusconi&cricca hanno prima instillato per via catodica nel corso degli anni ’80 e metà dei ‘90, e poi politicamente imposto in questi ultimi quindici anni radiosi.

Qual è questo modello ?

Lo conosciamo a memoria.
L’homo berlusconiensis, in buona sostanza, è il cittadino che non si dà pena di informarsi con obiettività e completezza, che preferisce il luogo comune e il pregiudizio all’esame razionale dei fatti che pure lo riguardano; è il cittadino che piuttosto che far valere i propri diritti – se ciò gli costa il minimo sforzo – preferisce bussare alla porta di chi forse gli accorderà un favore; è il cittadino che se può scansa i propri doveri di membro di una comunità civile ed evoluta, e ipocritamente si scaglia contro chi poi fa altrettanto.
L’homo berlusconiensis non legge e non studia ma guarda la televisione, e solo quella d’evasione; non prende posizione, ma tifa; non rispetta la coda, ma chiede una scorciatoia al compare di turno; parcheggia in doppia fila o negli spazi riservati; è incline al mobbing, o lo subisce senza dignità; non rilascia ricevuta fiscale, e non la pretende; dichiara tolleranza zero contro l’emarginato, il migrante, il diverso, e invece perdona tutto al gaglioffo di successo, anzi lo invidia; è maschilista perfino se donna; non parla con i figli, ma se ne compra i sorrisi al centro commerciale; non dà valore al sapere degli anziani, e anzi li seda col minimo disturbo; odia l’immondizia per le strade, ma non si piega alla raccolta differenziata; si dichiara cattolico ma ignora ogni messaggio spirituale; tutto ciò che pretende è la sicurezza eppure è avido di cronaca nera; persegue la felicità privata a dispetto del pubblico interesse, eppure è privatamente sordamente infelice.
L’homo berlusconiensis è l’uomo che si è convinto – o che è stato convinto un giorno dopo l’altro – che ogni cosa ha un prezzo. E sopra ogni altra cosa, che lui stesso ce l’ha – un prezzo, e neanche troppo elevato

Allora ?

Allora indiciamo una giornata, una sola per cominciare – perché non si pretende che si diventi tutti virtuosi da subito – una giornata da Paese normale, semplicemente.
Una giornata durante la quale chi vorrà aderire a questa azione rivoluzionaria non dovrà far altro che staccarsi il prezzo da dosso: discostarsi il più possibile da quel terribile modello antropologico e somigliare il più possibile a un qualsiasi cittadino di un Paese normale qualunque.
Uno dei tanti Paesi che ci sopravanzano nelle classifiche internazionali sul grado di civiltà, comunque misurato.
Per una giornata, dal buongiorno alla buonanotte, proveremo ad essere – per esempio – onesti come scandinavi, laboriosi come orientali, tolleranti come caraibici e dignitosi come masai.
E forse ci scopriremo, la sera, felici come polinesiani.

O forse no – ma non è questo il punto.
Il punto è che il berlusconismo resiste perché si specchia in noi, in questo popolo di cui esso stesso ha deformato la fisionomia.
Il punto è che la faccia di plastica di Berlusconi pare indistruttibile – ma non altrettanto lo specchio.
Allora rompiamolo: facciamo la rivoluzione così.
Per un giorno intero il regime di sorpresa: giochiamo in contropiede, come nessuno potrebbe sospettare

Un giorno da Paese normale – ma normale in senso buono.

Ci vogliamo provare ?

Gli italiani mostreranno a se stessi e al governo che non sono – o non sono più – quella macchietta di popolo di cui il potere ha bisogno per esistere.
Un Giorno da Paese Normale, e poi un altro e poi un altro e poi un altro: i cittadini e i residenti in Italia daranno vita a un’epidemia di civiltà.

Il regime – questo presente – non si rimetterà mai più in salute.





LA TELEVISIONE DELL’ ECOLOGIA, L’ ECOLOGIA DELLA TELEVISIONE di Paolo andreozzi

25 10 2010

Lettera aperta ai Settanta

a Antonio Albanese, Alberto Angela, Piero Angela, Lucia Annunziata, Giovanni Anversa, Renzo Arbore, Corrado Augias, Oliviero Beha, Roberto Benigni, Bianca Berlinguer, Gianni Bisiach, Enrico Bertolino, Donatella Bianchi, Claudio Bisio, Maria Luisa Busi, Adriano Celentano, Ascanio Celestini, Piero Chiambretti, Licia Colò, Lella Costa, Maurizio Crozza, Ilaria D’Amico, Serena Dandini, Philippe Daverio, Franco De Felice, Elio, Simona Ercolani, Emanuela Falcetti, Fabio Fazio, Rosario Fiorello, Giovanni Floris, Dario Fo, Carlo Freccero, Milena Gabanelli, Enrico Ghezzi, Marco Giusti, Beppe Grillo, Lilli Gruber, Corrado Guzzanti, Sabina Guzzanti, Riccardo Iacona, Rula Jebreal, Gad Lerner, Luciana Littizzetto, Carlo Lucarelli, Daniele Luttazzi, Neri Marcorè, Carlo Massarini, Enrico Mentana, Gianni Minà, Corradino Mineo, Giovanni Minoli, Michele Mirabella, Carlo Nesti, Marco Paolini, Franca Rame, Camila Raznovich, Vieri Razzini, Andrea Rivera, Paolo Rossi, Sveva Sagramola, Michele Santoro, Roberto Saviano, Mario Tozzi, Marco Travaglio, Enrico Vaime, Vauro, Dario Vergassola, Andrea Vianello, Zoro
e loro autori e co-autori, collaboratori, registi, programmisti, tecnici e assistenti.

Cari e stimati tutti,
voi che sapete fare benissimo (in “riserve” di ascolto più o meno assediate) o che sapreste fare (se solo ve lo si permettesse) o che avete già fatto (prima che vi si suggerisse “altro”, o semplicemente il silenzio-TV) informazione e inchiesta e cultura e spettacolo e intrattenimento di pura qualità, vogliate permettermi di rivolgervi qualche domanda da semplice telespettatore. 
 
Perché dovete ancora sentirvi inseriti o provare a inserirvi – a dispetto della coltre di conformismo che li soffoca, della censura solo mascherata, dei criteri disvaloriali imperanti – nei prodotti televisivi dei grandi network pubblici e privati ?
O per quale motivo – viceversa, nei casi di assenza ormai “conclamata” – preferite rinunciare del tutto al “catodico” in favore, che so, del solo teatro o della piazza o della radio o del web ?
 
Perché invece non decidete di mettere il vostro talento e la vostra onestà in un progetto di cui voi soltanto e (noi) il vostro pubblico siate i liberi ideatori, gli ultimi responsabili, i realizzatori e i fruitori insieme ?   
Tanto la testa della gente che vede la TV “di massa”, che si nutre di scarti (quanto a spettacolo) e di abbagli (quanto a informazione), non la cambieremo mica con qualche goccia di splendore qua e là.
Per di più, la stessa vostra presenza (laddove e semmai “gentilmente concessa” o faticosamente conquistata) alla fine legittima in qualche modo lo stesso andazzo generale: avete presente il “vittimismo dei vertici”, no ?
Né, nel caso opposto, – per dirla con Nanni Moretti – “vi si nota di più se non ci siete affatto”. Giusto ?
 
Allora dalle domande passo senz’altro alla proposta – e credo di poter rappresentare qualche altra voce oltra la mia di singolo cittadino.
 
Vogliamo tutti insieme costituire un’emittente nuova di zecca, privata ma sul serio, con la sua bella frequenza libera sul digitale ?
Voi a creare il più bel palinsesto che la storia televisiva abbia mai sognato, noi a sostenervi con l’ascolto e il gradimento – e coi soldini risparmiati dal canone annuale (che smetteremmo motivatamente di pagare) e dalla spesa quotidiana (che “ripuliremo” dai prodotti pubblicizzati sui network) – e gli sponsor a fare la propria parte avendo fiutato un affare che associa qualità e profitto: una televisione economicamente razionale, e molto ecologica per il cervello e per l’anima.
 
L’Italia della maggioranza silenziosa scenda pure la china mano a mano con i Vespa, i Minzolini, i Fede, le De Filippi, i Grandifratelli, le Isole, le Soap, le Strisce, i Factor e i Quiz !
S’impoverisca il mercato del trash e delle sciocchezze ! 
Ma i professionisti come si deve lavorino, e con gratificazioni anche morali !
E la minoranza pensante del Paese – almeno questo, nella crisi generale – si goda un intrattenimento degno di questo nome !
 
Hai visto mai che i ragazzini di oggi, potendo di nuovo scegliere tra il miele e la ruggine, un domani quest’Italia rovinata te la risollevano davvero: c’è da sperare solo in questo, adesso.
 
Proviamo a parlarne insieme ?
 
 
Paolo Andreozzi, di Roma
 
 
P.S.:
 
Vogliate pure condividere questa lettera aperta con altri “operatori della comunicazione” in Italia, se riterrete che possano essere interessati al tema e – soprattutto – alle sue motivazioni.
Io ho indicato in indirizzo voi settanta (e vostri autori e co-autori, collaboratori, registi, programmisti, tecnici e assistenti) perché la televisione non la vedo molto: magari ce ne sono anche altri, di bravi&onesti come voi. Grazie, e buon tutto.





UN ARTICOLO IN RE MINORE di Paolo Andreozzi

17 10 2010

Questo è un articolo in Re minore, diciamo.

Non è un articolo trionfalistico: non può esserlo, ancora.

Anche lo stile – lo vedete – è un po’ così: autodidatta.

Questo articolo, per adesso, serve soltanto a questo:

a ricordarci poche cose importanti.

1. Che sabato 16 ottobre mancavano cinquanta giorni al 5 dicembre 2010: il primo anniversario del No B Day, il primo compleanno del Popolo Viola.

2. Che domenica 17 ottobre ne mancavano quarantanove, di giorni, oggi quarantotto, domani quarantasette, il 25 novembre dieci e giovedì 2 dicembre solo tre.

3. Che la situazione politica italiana è in movimento, forse come mai prima in questi ultimi quindici anni; e che se da una parte il Popolo Viola – qualunque cosa sia – è stato ed è uno dei suoi fattori dinamici, dall’altra proprio il dinamismo generale mi costringe e mi ha costretto finora ad aggiungere all’espressione “Popolo Viola” la denotazione “qualunque cosa sia”.

4. Che la situazione politica italiana è quindi diventata abbastanza imprevedibile nel breve periodo, e però forse è possibile sperare che il regalo di compleanno del Popolo Viola da parte della Storia sia l’uscita di scena di Silvio Berlusconi – o, almeno, l’avvio delle condizioni oggettive perché ciò si realizzi nel corso del 2011.

5. Ma che – succeda o meno ciò che noi desideriamo – il Popolo Viola un regalo di compleanno a se stesso, comunque se lo deve.

Questo articolo si rivolge a tutti quelli che il 5 dicembre 2009 c’erano.

Si rivolge a tutti quelli che non c’erano, però avrebbero voluto esserci.

A tutti quelli che non ne sapevano niente, all’epoca, ma che dopo hanno imparato a conoscere il Popolo Viola – a sentirsene parte in un modo qualsiasi: ininterrottamente, o per un giorno soltanto.

Questo articolo si rivolge a tutti quelli che sono viola abbastanza da riuscire a vedere del viola tante sfumature differenti.

Si rivolge a tutti quelli che sono così viola che qualsiasi gradazione diversa dalla propria la vedono di un altro colore.

A tutti quelli che – per fortuna, mica per merito – hanno intuito che forse il Popolo Viola sta per venire al mondo adesso, con una gestazione un poco più lunga della norma di una donna; e che ciò che siamo stati ieri e siamo oggi non è che il viaggio incantato e aspro della nascita.

Questo articolo chiede, a chi lo sta leggendo, di saper leggere anche fuori di qui.

E in particolare di saper leggere che stanno delineandosi le condizioni per capire cosa il Popolo Viola sia, cosa possa diventare, come debba farlo e perché – di capirlo, e di realizzarlo.

Violaverso, di cui faccio parte; il Popolo Viola di Roma, di cui faccio parte; la Rete dei Gruppi Locali che aderiscono al percorso per la stesura della Carta Etica, di cui faccio parte; il Popolo Viola senza altre specificazioni, di cui faccio parte – io chiedo a ciascuna di queste realtà collettive in movimento, e a tutte e a ognuno che vi sia dentro o vicino, di essere strumenti fecondi per una maturazione tanto attesa: sia questo il regalo di compleanno a noi stessi.

Questo è un articolo in Re minore.

Non è un annuncio: è uno spartito bianco, per ora.

Chiunque, entro i prossimi cinquanta giorni (ma da ieri quarantanove, da oggi quarantotto…), potrà partire da qui per buttare giù la proprie note in questa chiave ponderata, forse un po’ tesa o lunare.

E inviarle qua in redazione, al Tulipano.

Ogni proposta si confronterà con ogni altra, tutte verranno contagiate da tutte: purché oneste, purché non diffidenti, purché figlie di esperienza – e madri.

E man mano prenderà forma naturale un’armonia, magari dissonante: sarà l’orecchio ad educarsi.

Allora sapremo cosa dovrà succedere il 5 dicembre 2010 – cosa faremo sì che succeda, e come tutto il Paese possa conoscere e comprendere.

Sarà lì che la tonalità cambia, ed entra il sole.





BERLUSCONISMO – Paolo Andreozzi

10 10 2010

Versione italianapersonale del modo neocapitalista globale di produzione e scambio dei beni e dei significati nella misura in cui esso tende dall’ultimo quarto del XX secolo a non potersi più permettere né la democrazia sostanziale né la tutela concreta e il diffuso sviluppo delle libertà civili, come involucro politico-giuridico dei rapporti reali tra le forze in campo, e nelle persone di quanti ritengono cheagiscono affinché esso non debba più farlo; italiana in tal senso, che essa si è resa specificamente possibile mercé la peculiare storia materiale e ideale di coloro in quanto prima sudditi di un regno a sovranità limitata dalla compresenza territoriale di una potenza secolare e confessionale a un tempo, poi soggetti e alla dittatura fascista e al dominio corporativo sull’economia agricola e industriale, e al conformismo derivante da entrambi, infine cittadini immersi in una cultura repubblicana e in una società che approda al terziario e tuttavia inclini ambedue al trasformismo e al compromesso, a tutto vantaggio di un assetto di impresa familistico e amorale nonché degli equilibri – finché in essere – tra blocchi geopolitici; epersonale in quanto essa versione si deve inconfutabilmente alla coesistenza dell’intera congiuntura oggettiva sopra descritta con il potere finanziario e mediatico, l’ambizionesemipatologica, la spregiudicatezza etica, l’efficacia ricattatoria nei confronti dell’opposizione in tutte le sue forme e dell’alternativa purchessia, la simmetrica ricattabilità da parte di forze non-ufficiali e criminogene e, non ultima, la buona sorte di un determinato individuo – Silvio Berlusconi – trovatosi, collocato ovvero impostosi, nei ruoli via via più favorevoli per sfruttarla ai propri fini e rendere ad essa i propri servigi.

Al netto delle irripetibili singolarità storiche, e per mera facilitazione nell’analisi analogica per ciò che essa vale e sia utile, sotto alcuni profili obiettivi o soggettivi è possibile l’accostamento tra il Berlusconismo e altre forme di regime, quali quelle realizzatesi nella Francia della seconda metà del XIX secolo e in Argentina per un breve tratto del XX, con Luigi Bonaparte Napoleone III e Juan Domingo Peròn e i loro rispettivi sostenitori interni ed esterni.

E’ presumibile che la parabola del Berlusconismo sia oggi vicina alla conclusione, e per il dato biografico del protagonista eponimo e per una riscontrabile flessione nella sintonia – la quale appunto ne ha nutrito la fase ascensionale e il duraturo apice – tra i parametri concreti del quadro socioeconomico congiunturale e il valore personale aggiunto da Berlusconi nella tutela degli interessi neocapitalisti di cui all’incipit.

Come che sia, alla lotta politica e politico-culturale al Berlusconismo non può efficacemente contribuirsi – dalla quota di società civile italiana che ciò desideri, e dall’opposizione ad esso nelle forme previste della rappresentanza – se non tenendo conto di tutto quanto sopra esposto (nei limiti della presente nota – e vieppiù del suo redattore), vale a dire intanto favorendo la circolazione nell’opinione di massa di tale valutazione, che Berlusconi non può più, o può sempre meno, garantire (semmai l’abbia fatto realmente, e non millantato soltanto) il benessere materiale della maggior parte dei cittadini, comunque definito e percepito, soprattutto se in contrapposizione a modelli alternativi e attraenti da coagularsi intorno a un’opzione riconoscibile; di modo che la pressione dell’opinione pubblica, così diversamente orientata, allarghi il solco della nuova distonia quale già si osserva.

Berlusconi cadrà, il Berlusconismo passerà agli atti della storia.

Ma le condizioni che l’hanno reso possibile e fattuale – e cioè, un aspetto profondo dell’italianitàcronica ovvero transeunte – e la ristrutturazione neocapitalista globale che in Italia così si è andata declinando, di esse non è alle viste alcun ribaltamento.

E’ il problema di una prossima nota: diamo i compiti a casa.

Paolo Andreozzi, Il Tulipano – Roma





UNA MANO CON SETTE DITA – Paolo Andreozzi

7 10 2010

Per fare politica (a tutti i livelli: locale o nazionale, professionale e no, in partito o in movimenti) che possa dirsi tale – e non business o carrierismo, né crimine semplicemente – è condizione necessaria e sufficiente il possesso di una mano con sette dita. Quattro di queste sette servono a dire no, a negare; le restanti tre dita servono ad affermare. Partiamo dai no. Chi intende fare politica (nel senso sopra circoscritto) deve essere non acquistabile; ossia, un mero valore materiale non può risultare ai suoi occhi abbastanza attraente da fargli cambiare opinione politica. Presupposto interiore a questa condizione è che chi vuole fare politica non sia avido; anzi, che sia il contrario di avido: che sia generoso. Altrettanto, costui deve essere non lusingabile; e cioè, ai suoi occhi non può essere così attraente da fargli cambiare idea neppure un valore non materiale, di natura ovviamente solo superficiale e narcisistica. Il presupposto psicologico, come sopra, è che il soggetto sia già abbastanza consapevole del proprio valore da ritenere ininfluente qualsiasi lusinga esterna: che sia maturo. Ancora, egli deve essere non minacciabile; e non tanto perché ad esso non possa essere rivolta minaccia da parte di alcuno – qualche malintenzionato sulla nostra strada possiamo sempre trovarlo, purtroppo -, ma perché la minaccia non sortirà l’effetto voluto di fargli mutare avviso. Chi intende fare politica deve essere coraggioso. Ed ecco il quarto e ultimo dito del no: egli deve essere non ricattabile; ossia, nessun suo avversario (ovvero compagno posticcio, e infedele) deve poter avere fondato e dimostrabile motivo di infangargli la reputazione – né in termini morali né, tanto peggio, in termini penali. In buona sostanza,e tanto banalmente quanto (si direbbe) utopisticamente, chi fa politica nel senso qui in oggetto deve essere onesto. Ora le tre dita che servono ad affermare: le tre qualità del sì. Chi intende fare politica – come la intendo io e, sono propenso a credere, voi pure – deve sapere; deve sapere ciò che non può non essere conosciuto a proposito della realtà da parte di chi vuole su essa intervenire: deve avere un’erudizione delle cose umane (dalla storia al romanzo all’economia) e una strumentazione tecnica (dalla psicologia alla matematica) per muovercisi dentro a proprio agio. Insomma è bene che egli sia colto, ma ciò può essere intanto un obiettivo; dunque che sia studioso. Il secondo dito del sì afferma che costui deve volere. Sembra scontato, ma non è così: infatti non tutti vogliono qualcosa, o meglio tutti siamo fatti volere qualcosa da qualcos’altro o da qualcuno; ma volere in prima persona è un altro paio di maniche. E’ che volere costa energia, molta, e ottenere ciò che si vuole ne costa moltissima; e l’energia è merce rara – soprattutto nella contemporaneità, la quale ha la caratteristica specifica di offrire occasioni futili a bizzeffe per dissipare le nostre riserve. Quindi il presupposto interiore all’esercizio della volontà è saper scegliere, canalizzare, non stancarsi. Chi vuole fare politica deve essere resistente. Ultimo ma – immancabilmente – non ultimo, il dito del comprendonio: quest’uomo (o donna, certo, ma era chiaro) deve capire. Deve capire tutto anche quando non può sapere tutto, deve leggere la realtà e coglierne il senso generale dai soli dettagli disponibili al suo esame, deve capire le finalità degli altri dall’osservazione del loro comportamento; e deve adottare il comportamento più coerente rispetto a – congiuntamente – le proprie finalità, la realtà, i comportamenti altrui finalizzati. Il tutto, senza doversi aspettare spiegazioni da nessuno o confortanti controprove in corso di valutazione e mossa – se non indirette, simboliche, intepretabili. In una parola, chi intende fare politica deve essere intelligente. Generosità, maturità, coraggio, onestà, studiosità, resistenza, intelligenza. Eccola, la mano con sette dita; senza la quale – da quello che ho visto e sperimentato in quest’anno di attività e militanza – è impossibile fare bene politica, politica (ripeto) che non sia carriera o malaffare.





E’ la democrazia, bellezza

7 12 2010

a cura di Paolo Andreozzi

Due foto delle elementari: stesso anno, due classi diverse.

Qual è la mia ?  Questo è il bello: a prima vista mi è impossibile dirlo !

Eppure quella fotografia – quella “giusta” – l’avrò guardata centinaia di volte: dovrei sapere a memoria la disposizione dei bambini e riconoscere le facce, il taglio dei capelli. Quell’immagine fa – o dovrebbe fare – parte di me: della mia identità profonda.

Tuttavia un giorno, su facebook (e dove sennò ?) mi passa davanti agli occhi in rapida successione con quell’altra, e io non so decidermi su quale sia davvero la mia classe: quasi non mi ritrovo più neanch’io, cercandomi su entrambe.

In effetti diamo tutti così tanto la stessa impressione d’insieme: sia qui che là c’è quello paffuto e c’è quello spilungone, c’è la bambina coi ciuffi e quella con la zazzera, il ragazzino che ride a occhi stretti, quello con le fossette, un paio che cercano di darsi un tono, più di un calzettone bianco bene in vista, qualche ginocchietto scoperto, la stessa proporzione di mani giunte e di braccia conserte, la stessa linea ondulata che unisce idealmente le testoline di tutti.

La differenza tra le due fotografie, a essere schietti, è solo che da una parte ci sono io e dall’altra no.

Cosa vuol dire questo strano fenomeno ?  Che l’immagine di tutti quei bambini – l’una e l’altra foto insieme – non rappresenta due classi distinte, ma in realtà solo un paio delle moltissime inquadrature possibili di una medesima entità.

Quale entità ?  Diciamo: la generazione della metà degli anni ’60, di una metropoli italiana, di un quartiere a metà strada tra centro storico e periferia, e appartenente per famiglia alla classe media, diciamo al ceto impiegatizio e mercantile, che infatti scelse per quei bambini la scuola elementare pubblica.

E Paolo ?  Diluito lì dentro, nell’entità collettiva.

Un bel colpetto a quell’identità profonda dell’io, no ?

Allora provo a rassicurarmi: la mimetizzazione tra le due scolaresche, questa specie di “compressione dell’individualità”, si dovrà senza dubbio all’arcaica usanza del grembiulino e, inoltre, al fatto che tutti i bambini alla fine erano stati comunque docili alle metodiche indicazioni della maestra.

Forse. Facciamo una controprova saltando fino alle superiori: là almeno lo spirito d’indipendenza è assicurato, e niente uniformi !

Altre due foto: seconda liceo, giusto a cavallo tra i ’70 e gli ’80.

Come prima, una è la mia classe e l’altra no.
E qui le espressioni dei ragazzi e delle ragazze sono ancora più delineate, si vede meglio la personalità di ciascuno. D’altronde, ve lo ricordate tutti, erano anni cruciali: quelli dell’adolescenza, dei primi richiami sessuali, dell’emergere dei ruoli – leadership, attitudine gregaria, retroguardia – e della distribuzione ideologica lungo tutto l’arco costituzionale e no, dai “pariolini” alle “zecche”.

Della foto della mia classe ricordavo tutto, anche a occhi chiusi: avrei potuto dirti come eravamo messi, chi stava vicino a chi, quanto avevamo discusso per sceglierci i posti in base ai piccoli clan all’interno del collettivo, come eravamo vestiti, come ci pettinavamo e chi voleva spettinarsi a tutti i costi.

 

…Invece stavolta ci devo mettere un po’ a “vedere” i miei compagni veri, e perfino a riconoscere il mio straconsueto faccino adolescenziale !

E qui non ci sono scuse di “omologazione forzata”. Anzi, ecco tutti individui davvero “unici”: non più ragazzini piegati al volere di mamma, papà, insegnanti eccetera, ma giovani uomini e giovani donne, esseri umani emancipati – o almeno sulla strada dell’emancipazione, a suon di litigate in famiglia e dischi comprati o scambiati e libri in prestito, e attività sportive o di quartiere, discussioni politiche, amori raggiunti o rincorsi, viaggi fatti o sognati, generosità, perfidie.

Chi è che non possa dire, pensando a quegli anni e a quell’età, “io ero io, e non sembravo nessun altro” ?
Be’, amici, guardate queste due fotografie. Anzi, prendete anche le vostre e mettetele qui vicino: confrontatele come ho fatto io e – credetemi – dopo un po’ anche voi farete fatica a riconoscere con certezza la vostra tra le altre classi, e voi stessi tra tutti gli altri ragazzi ritratti in quelle immagini.
Due, tre, quattro, chissà quante inquadrature apparentemente diverse ma della stessa entità, ancora una volta: la generazione della metà degli anni ’60, di una metropoli italiana, agglutinata in un liceo del centro storico, e appartenente per famiglia alla classe media, diciamo al ceto impiegatizio-mercantile e delle professioni, che infatti scelse per quegli adolescenti uno dei migliori licei della città.
Ma la morale di tutto ciò qual è ?

Adesso arriva.

 

Non sto dicendo che fossimo tutti uguali, ma il fatto è che più badavamo a diversificarci in quell’ambito di trenta personcine e più uno sguardo d’insieme su due qualsiasi di quegli ambiti offre ora un panorama quasi indistinguibile.

Alle elementari come al liceo.

E mi sa pure dopo, sempre.

 

Stessa storia dopo, infatti. Provate da voi: immaginate di confrontare la fotografia scattata a un matrimonio a cui siate andati di recente (il classico “gruppone” di parenti e amici) con una qualsiasi altra foto simile di qualche vostro conoscente nello stesso periodo; oppure due foto di gruppo aziendali, o di vacanze al villaggio o cose così. Osservate il vostro volto nell’immagine che vi riguarda, e poi chiedetevi se c’è un motivo reale perché voi non compariate anche in una qualsiasi dell’altre immagini, una dei vostri amici.
Siamo tutti intercambiabili, questa è la verità. Almeno da un certo punto di vista.

Da quale punto di vista ?

 

Da quello del Potere.

 

Infatti, con questi semplici esperimenti possiamo persuaderci personalmente di ciò che meglio di me ci hanno già spiegato in tanti: dal Canetti di Massa e Potere al Marcuse di L’Uomo a una Dimensione, dal Debord di La Società dello Spettacolo a tutto Pasolini, e poi tanti grandi narratori contemporanei – Bellow e Pessoa tra gli altri – e poeti come De André.
E cioè – ecco la morale – che dal punto di vista del Potere e secondo gli interessi veri che muovono la vita di tutti, un soggetto di nome Paolo Andreozzi, nato cresciuto eccetera, semplicemente non ha i requisiti minimi di realtà.

Che ciò che è reale – a questo livello di lettura – è l’entità “collettiva” che gode di uno stesso “paradigma di status” (qui facebook non c’entra) economico e sociale: l’entità, per esempio, incarnata in quella “cosa” che si vede prima nei due scatti sui bambini e poi, “cresciuta” di qualche anno, nei due scatti sui ragazzi.
Mi spiego, e sgombro il campo da equivoci.

Il Potere è esercitato da persone, d’accordo: non da soggetti alieni o soprannaturali. Però converrete che si tratta di persone un po’ particolari: abituate a prendere decisioni per migliaia o per milioni di esseri umani.

Che si tratti di un manager finanziario, di un analista di procedimenti informatizzati, di un comunicatore di massa o di un leader politico – chi decide, vede tutti gli altri semplici cittadini un po’ come ognuno di noi può osservare il territorio sopra cui sta volando a bordo di un aereo di linea: rilievi o avvallamenti, fiumi e strade, paesi o campi coltivati, un panorama che rivela alcune differenziazioni interne ma che è praticamente uguale al resto del territorio per un certo raggio intorno a vista d’occhio. Chi governa l’andamento di un ciclo economico pluriennale su milioni di produttori-consumatori non può certo mettersi a riflettere su cosa io, tu, tu e quell’altro, ci aspettiamo davvero dai prossimi anni in termini di soddisfazione personale: figurarsi !  Né, d’altro canto, può più permettersi di comandarci scopertamente a bacchetta – almeno dalla Rivoluzione Francese in avanti, in questo quadrante del mappamondo.

La statistica – o meglio: una forma raffinatissima di algoritmo ricorsivo sui grandi numeri e un’infinità di parametri, che si chiama appunto Teoria dei Giochi e delle Decisioni – verrà, ai decisori di ogni rango, in valido e consolidato aiuto.

Per usare una sequenza famosa: quando un rappresentante dell’élite che conta davvero ha davanti a sé noi gente comune, la risolve in un’immagine molto simile a ciò che si svela agli occhi di Keanu Reeves verso la fine di Matrix – un flusso costante di informazioni quantitative da elaborare secondo standard ottimizzati e in continua verifica e attuazione. Una pioggerellina di numeri e lettere dell’alfabeto.

 

Stringono le mani, tengono una conferenza stampa, si fanno intervistare, ridono, fanno le corna, sono preparati, ambiziosi, simpatici, sprezzanti – niente di tutto ciò è autentico, spiacente deludervi: gli uomini del Potere semplicemente  simulano ciò che per noi è la quotidianità reale. Mostrano, giacché noi tutti odiamo e amiamo, di amare qualcosa (una squadra di calcio, per esempio, o il sesso) o qualcuno (una mamma, un figlio), di odiare qualcuno (un avversario politico) o qualcosa (il destino dell’esser traditi, o pelati), così che noi non li sentiamo alieni.

Lo mostrano, ma in realtà non provano né odio né amore: calcolano, e basta. Calcolano le probabilità oggettivamente favorevoli al mantenimento e l’ampliamento del potere che incarnano, tutto qua.

Tra l’altro li aiuta il fatto che noi siamo di continuo e letteralmente bombardati da segnali che dicono l’esatto contrario.

Hollywood, tra i tanti, è un antico e potentissimo veicolo di questa “normalizzazione” dell’uomo potente agli occhi delle masse: ricordate Bogart in Sabrina ?  E il Richard Gere di Pretty Woman ?  Fantastico, come sia facile essere sedotti dalla versione intenzionalmente fiabesca dell’effettivo quadro dei rapporti sociali.

Per non parlare del gossip: è grazie al gossip che noi “uomini della strada” divoriamo (crediamo di divorare) la vita “privata” dei decisori, i quali fingono di dolersene. E invece progettano nel dettaglio la costruzione della propria immagine gomito a gomito coi loro stessi “sputtanatori” (a libro paga). Non a caso la televisione non è diventata che uno sterminato pettegolezzo.

Concludo.

Per il Potere, l’individuo semplice non può uscire dai ranghi – e perfino le differenze radicali tra un individuo e l’altro, viste da lontano, sono una conferma del permanere nei “ranghi” della massa considerata nel suo insieme.

Questo perché l’élite al comando non corra il rischio di perdere il proprio ruolo: perché in sella restino i “decisori”.

Ma chi sono questi ?  Facciamo dei nomi ?  Li conoscete già.

Diciamo: il direttore generale della tua azienda, meglio ancora il consiglio di amministrazione della banca che la controlla. Diciamo: il capodipartimento della tua pubblica amministrazione, meglio ancora il gabinetto del sindaco o del presidente. Diciamo: i capigruppo di Camera e Senato, i segretari e presidenti di partito; diciamo tutto il governo, le sue agenzie e i loro consulenti, noti e ignoti; i vertici nazionali dell’industria, del fondo, del commercio e del credito; i direttori dei maggiori organi d’informazione, pubblica e privata, meglio ancora i loro editori diretti o di riferimento; i proprietari, e i relativi “think-tank”, delle imprese per la produzione e distribuzione dei beni alimentari, dell’acqua potabile, dell’energia, dell’innovazione tecnologica; gli affiliati di un certo livello a lobbies – di ogni natura, lecite o meno – interessate a orientare l’opinione della gente; i grandi e grandissimi brokers, financial traders e simili; gli alti e altissimi esponenti del clero, degli apparati militari, dei servizi segreti; la cupola – o le molte cupole – del grande crimine organizzato. Diciamo: una quantità di persone che non abbiamo mai visto né sentito nominare, che si conoscono solo tra loro, e stanno dietro alle facce da avanspettacolo dei “potenti” esibiti al grande pubblico all’ora di cena.

Diciamo: un sacco di persone. Ma neanche uno di noi qui.

Perché noi qui dobbiamo essere un’altra cosa, e non élite: dobbiamo essere, e continuare a voler essere, dei perfetti produttori-consumatori. Così come nel corso della Storia siamo stati schiavi, per esempio, o sudditi-soldati. La novità dell’evo contemporaneo è che ora non basta più che l’uomo sia massa, ma che desideri esserlo: è la democrazia, bellezza !

Altrimenti il sistema salta, tutto quanto.

Il Potere vuole con ogni mezzo che ognuno di noi si ponga come obiettivo (a seconda della nostra età e della nostra fascia socioeconomica) il perseguimento di una “meta” tra queste: fare carriera, non perdere un’occasione di avanzamento anche a costo delle amicizie vere e dell’antica lista di valori etici, replicando all’infinito il “racconto” della felicità scambiata con il conformismo, oppure vivere da emarginati, odiare gli altri e il sistema tuttavia alimentandolo inconsapevolmente buttandosi a capofitto sulla “mercanzia individualista” preparata allo scopo, e predisponendosi ai lavoretti sporchi all’occorrenza – che al Potere servono come il pane..

Integrati o apocalittici, direbbe Eco, in percentuale diversa – ovviamente preponderanti i primi, residuali i secondi – ma tutti indispensabili all’avanzamento del piroscafo globale: tutti in sala macchine, di qua o di là.

Aut aut: questo è il confine della nostra libertà, tutta qui, secondo il Potere.

Questa la lunghezza del nostro guinzaglio. Non un metro di più. Alla faccia dei sogni d’infanzia, dei progetti dell’adolescenza – di desideri così nostri e diversi per ciascuno.

 

Bene. Allora bisognerà tenderlo, quel guinzaglio, fino a lacerarlo: che si strappi, che ci si liberi davvero.

Prima condizione per riuscirci: la conoscenza, il sapere. Seconda: la condivisione – non per fare massa, ma per essere uomini.

Allora noi scriviamo per questo, non siamo qui che per questo.

 





Tre minuti di svago con il pubblico

23 11 2010

a cura di Paolo Andreozzi

Uno. Un nuovo fisco per le imprese.

– AH AH AH !!!

Due. Infrastrutture, nuove fonti di energia e telecomunicazioni.

– OH OOOH AH AH !!!

Tre. Lavoro.

– AH AH AH AH AAAAAH AH OOOOH !!!

Quattro. Liberalizzazioni.

– EH EHEE EH AH AH !!!!

Cinque. Sostegno al Made in Italy.

– UUUUUUH OH OH !!! AH AHAAA AH AH !!!

Sei. Riorganizzazione e digitalizzazione della Pubblica Amministrazione.

– AH AH AH !!! GRANDI ! EH EH EEEEEEH SÌ !!!

Sette. Meno tasse.

– UAHUAHUAHUAHUAH !!!!

Otto. Una casa per tutti.

– AH AH AH !!!!! QUESTA È BELLISSIMAAAAA !!!

Nove. Migliori servizi sociali.

– OH OH OH EHEEEEEE SÌ SÌ SÌ !!! AH AH AH !!!

Dieci. Dare ai giovani un futuro.

– UAHUAHUAHUAHUAHUAH !!! BASTAAAA !!! HO LE LACRIME !!!! AH AH AHAHAH !!!
Undici. Più sicurezza.

– IH IH IH IH AHEEEEE AH AH OOOOH !!!
Dodici. Più giustizia.

– AH AH !!! FANTASTICA !!! ANCORA !! AH AH AH !!!!

Tredici. Sanità.

– UAAAAAAH AH AH AH !!! UUUUUUH AH AH !!!!

Quattordici. Scuola, università, ricerca e cultura.

– AH AH AH AH !!!!! SEEEEEEEE !!!! SUPER !!! AH AH AH AH !!!!!

Quindici. Ambiente.

– AH AHAAAAA AH !!!! BASTA BASTA !!!!! MUOIO DALLE RISATE !!!!!

Sedici. Il Sud.

– OHOHOHAHAHAHAH !!! AAAAAH !!!! EH EH EH EH !!!!!

Diciassette. Il federalismo.

– AH OH EH AH IH AH UUUUH AH AH !!!! CHE SPASSOOO !!!

Diciotto. Un piano straordinario di finanza pubblica.

– AH AH !!! CHE SPETTACOLO !!! OGNI VOLTA SI RIDE COME LA PRIMA VOLTA !!! BRAVI !!! BRAVIIIIII !!!!

Abbiamo trasmesso:

Il Programma del Popolo delle Libertà, Elezioni Politiche 2008.





Quattro assi

16 11 2010

a cura di Paolo Andreozzi

(Il poker non c’entra nulla.)

Perché Berlusconi non si dimette ?

Per due ragioni, una banalissima e una appena meno scontata.

E perché i “poteri forti” non lo dimissionano, volente o nolente ?

Per altre due ragioni, una comprensibile e una inconfessabile.

 

La politica italiana, la vita stessa del Paese, sono ormai agonizzanti perché inchiodate da tempo a quattro assi in croce, intagliati nel legno da queste ragioni.

Vediamole.

 

1.

Berlusconi non si dimette, nonostante non abbia più la forza politica di governare l’Italia (di governarla “davvero” – e posto che ne abbia mai avuto la volontà da statista), banalmente perché la sua posizione di Premier è un salvacondotto giudiziario personale e, insieme, un “condono preventivo” al suo aberrante monopolio mediatico.

Finisse a breve la sua parabola di Presidente del Consiglio, Berlusconi dovrebbe infatti cominciare a rispondere alla giustizia al pari di un cittadino come gli altri (quasi come gli altri, visto che le depenalizzazioni e le prescrizioni facili se l’è già assicurate), e inoltre nessuno saprebbe garantirlo contro la possibilità che un diverso potere politico ristabilisca condizioni di libertà in campo televisivo e pubblicitario, a danno delle aziende sue e dei suoi figli.

 

2.

Berlusconi non si dimette, nonostante – se così volesse, come estremo rimedio – potrebbe scampare in un qualsiasi altrove super-dorato e finire là i propri anni tra i noti passatempo preferiti, perché non glielo permettono.

Chi è che non glielo permette ?  Ma il blocco di poteri che lo sostiene dalla “discesa in campo” !

Il quale blocco – economico, finanziario, politico – non può concedersi il lusso di far a meno di un front-man che ha saputo indurre il gusto del pubblico in una certa direzione e intercettarlo finora così straordinariamente bene, e che al riparo di questa lunghissima “luna di miele” tra Berlusconi e la “pancia” del Paese ha fatto affari in misura stratosferica.

Se Berlusconi e la sua corte traslocassero ad Antigua – per dirne una – chi suonerebbe il piffero nelle orecchie degli italiani ?  C’è il rischio che si sveglino dall’incantesimo e che la festa finisca (la festa degli affaristi soltanto, ovviamente).

Quindi lui resta dov’è, pure fosse controvoglia, e per il disturbo gli fanno fare un po’ quel che vuole con chi gli pare – i megafoni dell’informazione “di palazzo” sempre pronti a trovare e diffondere mille giustificazioni per gli eccessi più gaglioffi del “capo”.

 

3.

Questa terza ragione potrebbe somigliare alla seconda (“i poteri forti non permettono a Berlusconi di andare in pensione”), e invece richiede un passaggio analitico distinto: il blocco di poteri che sostiene Berlusconi non è unito, ma scisso in due parti.

Una parte è quella “meno vorace”, o più lungimirante, che sarebbe già pronta ad agganciare le proprie strategie di interesse a uno scenario più europeo e meno populista, e far fronte alla crisi globale insieme all’intero sistema-Paese riformato (beninteso, sempre con estrema cura per i propri vantaggi economico-finanziari – e se poi anche i cittadini italiani ci guadagnano qualcosa in termini di ripresa, tanto meglio per loro).

Ma l’altra parte no: trovandosi costituita da forze più o meno rispettabili ma congenitamente non predisposte al “gioco grande” del capitale e della democrazia (ciò che invece è consolidata realtà nei grandi Paesi occidentali), essa può sopravvivere solo grazie all’arretratezza italiana sia nelle infrastrutture materiali che quanto a diffusione di senso civico.

E’ miope da far paura, come tattica, eppure è così.

Questa seconda “fazione” (la cui espressione politica è in gran parte la Lega e lo zoccolo duro di Forza Italia, e ha la consistenza sociale della piccola borghesia e dei ceti popolari “anti-politici”) vede in Berlusconi – e in lui soltanto – il proprio “campione”, e lo voterebbe sempre e comunque a dispetto di qualsiasi scandalo o “sputtanamento” tranne nel caso in cui fosse Berlusconi stesso a designare qualcun altro come proprio successore ideale.

Al contrario, la prima fazione è giusto quella che si sta allineando già da un po’ sulla traiettoria che in Parlamento va da Fini a Casini e a Rutelli e in società da Marcegaglia a Montezemolo e a De Bortoli, ma che temporeggia nel “mollare” Berlusconi perché un altro nome capace di attrarre da solo più di dieci milioni di voti a botta non si trova mica a ogni angolo di strada. (Chiedere ai ricconi americani, che per avviare la deregulation degli anni ’80 senza che l’opinione pubblica si accorgesse subito del “pacco”, hanno dovuto prendere in prestito da Hollywood Ronald Reagan !)

Quindi, su questo terzo asse, Berlusconi resti inchiodato al suo posto finché o lui stesso non “benedirà” pubblicamente l’erede al trono oppure un sondaggio non rassicurerà i poteri forti che è pronto e spendibile un altro grande seduttore, arrivato dalle file dei suoi ex-alleati o da chissà dove.

 

4.

Berlusconi non viene dimissionato perché altrimenti l’Italia diventa il Medio Oriente: nel senso che in tal caso la strategia della tensione e la stagione delle stragi di antica o più recente memoria si salderebbero insieme, e la destabilizzazione del Paese sotto ricatto sarebbe all’ordine del giorno – di nuovo e per chissà quanto.

Presupposto logico a questa quarta e ultima ragione della permanenza di Berlusconi al proprio posto – a dispetto di tutto – è che il più forte tra i poteri forti che lo sostengono dalla prima ora, sia un potere criminale.

E, più precisamente, che esso sia quello stesso potere multiforme e occulto (o i suoi “aggiornamenti”) il quale è intervenuto senza scrupoli ogni qual volta l’Italia lungo la propria storia repubblicana “ha corso il rischio” di diventare un Paese normale: per esempio dopo il ’68 studentesco e l’autunno caldo del ’69, con il golpe fallito per un pelo e con le bombe da piazza Fontana a piazza della Loggia; per esempio dopo l’avvicinamento tra la DC di Moro e il PCI di Berlinguer, col rapimento e l’esecuzione di Moro – appunto – e con le altre stragi fino alla stazione di Bologna; per esempio dopo i successi giudiziari di Milano contro tangentopoli e di Palermo contro la mafia, con la delegittimazione sistematica della magistratura e con le bombe alle città d’arte, fino alle uccisioni di Falcone e Borsellino e loro scorte.

Bene (bene, si fa per dire): dopo l’eventuale “deposizione” di Berlusconi e lo stop al predominio del potere fuorilegge che (in questa ipotesi “di scuola”) lo ha intenzionalmente “creato” a suo tempo e sorretto finora, la repubblica semplicemente verrebbe fatta precipitare nel caos più violento.

Gli antagonisti di Berlusconi – secondo tale schema: i rispettivi vertici di tutte le entità politiche, economiche, sindacali, sociali e culturali dell’Italia legale – lo sanno, e di conseguenza si guardano dall’accendere una miccia tanto distruttiva: Silvio I resti sul trono, e il popolo non intuisca che un dubbio.

Ma allora ?

E allora probabilmente sono già in corso trattative sotterranee, trattative fra i cui attori ci sono forse anche cordate di raggio internazionale (Vaticano compreso), perché quel potere a-legale autoctono ceda qualcosa in cambio di qualcos’altro; magari con la prospettiva di margini di guadagno inalterati, grazie a una ridistribuzione geopolitica globale (“Mai sprecare una bella crisi !”) che consenta un sussulto di “dignità democratica” perfino in questo nostro tassello a forma di stivale.

Se così è, la trattativa somiglia (benché su scala di poteri e interessi assai più ampia) a quella che portò alla consegna di Riina alla legge, previa sconfitta dei corleonesi e riassetto della direzione mafiosa in termini meno eclatanti e più affaristici: diciamo allora che, se è così, Berlusconi e i suoi “corleonesi” tra non molto potrebbero essere “consegnati” allo Stato senza grosse rappresaglie traumatiche solo nel caso in cui sia stato trovato un compromesso temporaneo (temporaneo di un paio dei prossimi decenni, almeno) fra tutte le diverse esigenze in campo.

Tra le quali anche quelle del popolo italiano, certo, sovrano secondo la Costituzione – e però ignaro.

 

E’ per una o più d’una tra queste ragioni che l’agenda del Paese è fissa da tanto tempo sullo stesso foglio; è con una o più d’una tra queste dinamiche, presto o tardi, che volteremo pagina.

 

Ma tutto ciò – si contesterà – fa letteralmente a pugni con l’idea stessa di libertà, di autodeterminazione.

Di diritto.

E infatti (avrei dovuto dirlo all’inizio) qui siamo nell’ora di Storia.

 

(Dove il “poker” si gioca così.)

 

post scriptum

Il potere criminale di cui al punto 4 è un potere enorme, spietato. Un potere che scrive la Storia – tanto per restare in materia.

 

Tuttavia ce n’è un altro alla sua altezza: uno soltanto.

Ed è – pensate – un potere legale, rispettoso della Costituzione e prima ancora della civile convivenza, condizione di ogni progresso. Un potere alla luce del sole e altrettanto enorme di quello nell’ombra se solo riesca a divenire consapevole di sé, coeso, efficace – e allora è in grado di cambiare la rotta di una Nazione.
Questo potere è l’opinione pubblica.

 

E qui è ad esso che si prova a dare, umilmente, un qualche impulso.

 





LO DICO ADESSO, IN GIORNI NON SOSPETTI

9 11 2010

a cura di Paolo Andreozzi

 

Lo dico adesso, in giorni non sospetti, quando probabilmente non manca che qualche mese soltanto al ripristino delle condizioni di democrazia sostanziale in questo Paese.

 

Lo dico adesso.

 

Dico che quando, ormai tra non molto, ci si desterà – per via politica o giudiziaria, finanziaria obiologica – dall’avvilente incubo anti-italiano in cui la Nazione è paralizzata da sedici anni, ossia quando la banda di avventurieri senza scrupoli che la dis-governa infine uscirà di scena (ne saràfatta uscire, meglio) e la dialettica repubblicana potrà riprendere tra una sinistra e una destraentrambe costituzionali, per tentare di sanare le ferite inferte all’anima e al corpo dello Stato e per affrontare sia gli usuali problemi delle nazioni contemporanee sia quelli straordinari che soltanto l’Italia deve alla propria storia – ebbene, allora io mi ricorderò di tutti.

Mi ricorderò di quelli i quali, perdurando l’incubo, l’hanno alimentato per un personale interesse (diabolico, quindi miope) prendendo parte consapevole e attiva – ciascuno per il proprio spicchio di potere reale o simbolico – alla realizzazione del disastro presente, visibile, profondo.

 

E mi ricorderò di tutti quelli che l’incubo hanno quantomeno favorito senza comprendere, con una sorda (quasi autistica) indifferenza ai pur evidenti segnali di allarme civile che in molti – la minoranza in Italia, la maggioranza fuori, la quasi totalità tra le persone oneste e avveduteinsieme – lanciammo per tanto corso di ogni nostra singola esistenza.

 

E non si dà quantità sufficiente di trucchi e travestimenti da bravi cittadini, indossati in tutta fretta quando il vento sarà cambiato, perché io non riesca a vedere allora – e benissimo – sotto la maschera nuova il vecchio sguardo rapace, o invece vuoto (che è lo stesso), che ancora quest’oggi deturpa innanzi al Mondo il volto meraviglioso della Repubblica Italiana.

 

Né sarebbe un inedito: dopo la guerra, dopo la Resistenza, dopo il referendum istituzionale, dopo la promulgazione della Costituzione – una gigantesca operazione di maquillage fu tentata e riuscita, e dell’oceanico popolo fascista di solo pochi mesi addietro già non restavano (pareva) che patetici elementi di risacca, buoni da spauracchio anti-sindacale.

 

L’Italiano è questo: ha fiuto per l’oscillazione dei destini, e flessibilità nella trasformazione di facciata.

Ma l’Italiano – questo che scrive, almeno, potete giurarci – ha pure ottima memoria.

 

Nessuna rappresaglia invocherò: restate pure a galla nella Nazione finalmente (ma a che costo) ritrovata, così come la vostra carenza di onore e autostima, come il vostro stesso codice genetico e sociale consente ed autorizza.

Gli storici vi giudichino sul lungo termine a futuro vaccino di civiltà collettiva, e i magistrati per i profili penali eventuali in quanto individui.

 

Io sono soltanto un cittadino, non ho potere né un prezzo – in questa Italia misera d’ora né in quella volenterosa che sta per arrivare.

Nessuna rappresaglia, ripeto, a libertà e giustizia riconquistate.

 

Soltanto, signori, togliamoci il saluto.

 





Pessimismo e coraggio

3 11 2010

a cura di Paolo Andreozzi

Sono totalmente persuaso che pessimismo e rinuncia siano il padre e la madre di tutte le mafie.
In effetti, tolti pure quanti direttamente o indirettamente lucrano sull’attività criminale organizzata – dalle cupole affaristiche, politiche e territoriali, alla moglie disoccupata dell’ultimo spacciatorello di periferia , ritengo che lo storico e presente, e visibilissimo, stile mafioso nella creazione e nell’amministrazione dei rapporti economici e sociali tra i cittadini e tra le imprese e tra essi tutti e le istituzioni nel nostro Paese, affondi comunque le proprie radici nel tetro convincimento di quasi tutti gli altri italiani, così esprimibile: le cose non possono che andare in questo modo.

In altre parole: se anziché in base alla Costituzione, alle leggi e ai regolamenti nazionali, alle direttive europee e alle norme non scritte dell’onestà e del civismo, la nostra esistenza di cittadini della Repubblica si determina perlopiù secondo criteri a-legali o illegali tout court, è perché anche chi detesta tutto questo
– o non crede profondamente nella possibilità che ciò non sia,
– o semplicemente non ha abbastanza fantasia per immaginare un contesto differente.

E personalmente non conosco altri rimedi a tale paralisi della volontà, che un’ informazione costante e approfondita e una cultura delle migliori cose umane: la bellezza e il coraggio.

Ciascuno di noi, quale che sia il proprio status socioeconomico e,  perfino,  a qualunque famiglia ideologica appartenga, può in un istante qualsiasi del proprio quotidiano vivere pubblico realizzare un semplice atto di bellezza o di coraggio, o regalarsi nel privato un seme di informazione, di verità, di razionalità pacata, di condivisione umana.
Dal che consegue che non vi è alibi per nessuno,  che siamo tutti coinvolti, in prima persona e responsabilità, nel determinare lo stato di cose presente del nostro Paese.

Tra i molti strumenti per sapere e per sperare, rispettivamente segnalo qui due prodotti intellettuali – che parlano tuttavia al cuore, quanto alla testa:
“Il ritorno del principe”, di Roberto Scarpinato e Saverio Lodato edito da:  Chiare Lettere
“Salviamo l’Italia”, di Paul Ginsborg edito da: Einaudi, collana Vele