a cura di Paolo Andreozzi
Due foto delle elementari: stesso anno, due classi diverse.
Qual è la mia ? Questo è il bello: a prima vista mi è impossibile dirlo !
Eppure quella fotografia – quella “giusta” – l’avrò guardata centinaia di volte: dovrei sapere a memoria la disposizione dei bambini e riconoscere le facce, il taglio dei capelli. Quell’immagine fa – o dovrebbe fare – parte di me: della mia identità profonda.
Tuttavia un giorno, su facebook (e dove sennò ?) mi passa davanti agli occhi in rapida successione con quell’altra, e io non so decidermi su quale sia davvero la mia classe: quasi non mi ritrovo più neanch’io, cercandomi su entrambe.
In effetti diamo tutti così tanto la stessa impressione d’insieme: sia qui che là c’è quello paffuto e c’è quello spilungone, c’è la bambina coi ciuffi e quella con la zazzera, il ragazzino che ride a occhi stretti, quello con le fossette, un paio che cercano di darsi un tono, più di un calzettone bianco bene in vista, qualche ginocchietto scoperto, la stessa proporzione di mani giunte e di braccia conserte, la stessa linea ondulata che unisce idealmente le testoline di tutti.
La differenza tra le due fotografie, a essere schietti, è solo che da una parte ci sono io e dall’altra no.
Cosa vuol dire questo strano fenomeno ? Che l’immagine di tutti quei bambini – l’una e l’altra foto insieme – non rappresenta due classi distinte, ma in realtà solo un paio delle moltissime inquadrature possibili di una medesima entità.
Quale entità ? Diciamo: la generazione della metà degli anni ’60, di una metropoli italiana, di un quartiere a metà strada tra centro storico e periferia, e appartenente per famiglia alla classe media, diciamo al ceto impiegatizio e mercantile, che infatti scelse per quei bambini la scuola elementare pubblica.
E Paolo ? Diluito lì dentro, nell’entità collettiva.
Un bel colpetto a quell’identità profonda dell’io, no ?
Allora provo a rassicurarmi: la mimetizzazione tra le due scolaresche, questa specie di “compressione dell’individualità”, si dovrà senza dubbio all’arcaica usanza del grembiulino e, inoltre, al fatto che tutti i bambini alla fine erano stati comunque docili alle metodiche indicazioni della maestra.
Forse. Facciamo una controprova saltando fino alle superiori: là almeno lo spirito d’indipendenza è assicurato, e niente uniformi !
Altre due foto: seconda liceo, giusto a cavallo tra i ’70 e gli ’80.
Come prima, una è la mia classe e l’altra no.
E qui le espressioni dei ragazzi e delle ragazze sono ancora più delineate, si vede meglio la personalità di ciascuno. D’altronde, ve lo ricordate tutti, erano anni cruciali: quelli dell’adolescenza, dei primi richiami sessuali, dell’emergere dei ruoli – leadership, attitudine gregaria, retroguardia – e della distribuzione ideologica lungo tutto l’arco costituzionale e no, dai “pariolini” alle “zecche”.
Della foto della mia classe ricordavo tutto, anche a occhi chiusi: avrei potuto dirti come eravamo messi, chi stava vicino a chi, quanto avevamo discusso per sceglierci i posti in base ai piccoli clan all’interno del collettivo, come eravamo vestiti, come ci pettinavamo e chi voleva spettinarsi a tutti i costi.
…Invece stavolta ci devo mettere un po’ a “vedere” i miei compagni veri, e perfino a riconoscere il mio straconsueto faccino adolescenziale !
E qui non ci sono scuse di “omologazione forzata”. Anzi, ecco tutti individui davvero “unici”: non più ragazzini piegati al volere di mamma, papà, insegnanti eccetera, ma giovani uomini e giovani donne, esseri umani emancipati – o almeno sulla strada dell’emancipazione, a suon di litigate in famiglia e dischi comprati o scambiati e libri in prestito, e attività sportive o di quartiere, discussioni politiche, amori raggiunti o rincorsi, viaggi fatti o sognati, generosità, perfidie.
Chi è che non possa dire, pensando a quegli anni e a quell’età, “io ero io, e non sembravo nessun altro” ?
Be’, amici, guardate queste due fotografie. Anzi, prendete anche le vostre e mettetele qui vicino: confrontatele come ho fatto io e – credetemi – dopo un po’ anche voi farete fatica a riconoscere con certezza la vostra tra le altre classi, e voi stessi tra tutti gli altri ragazzi ritratti in quelle immagini.
Due, tre, quattro, chissà quante inquadrature apparentemente diverse ma della stessa entità, ancora una volta: la generazione della metà degli anni ’60, di una metropoli italiana, agglutinata in un liceo del centro storico, e appartenente per famiglia alla classe media, diciamo al ceto impiegatizio-mercantile e delle professioni, che infatti scelse per quegli adolescenti uno dei migliori licei della città.
Ma la morale di tutto ciò qual è ?
Adesso arriva.
Non sto dicendo che fossimo tutti uguali, ma il fatto è che più badavamo a diversificarci in quell’ambito di trenta personcine e più uno sguardo d’insieme su due qualsiasi di quegli ambiti offre ora un panorama quasi indistinguibile.
Alle elementari come al liceo.
E mi sa pure dopo, sempre.
Stessa storia dopo, infatti. Provate da voi: immaginate di confrontare la fotografia scattata a un matrimonio a cui siate andati di recente (il classico “gruppone” di parenti e amici) con una qualsiasi altra foto simile di qualche vostro conoscente nello stesso periodo; oppure due foto di gruppo aziendali, o di vacanze al villaggio o cose così. Osservate il vostro volto nell’immagine che vi riguarda, e poi chiedetevi se c’è un motivo reale perché voi non compariate anche in una qualsiasi dell’altre immagini, una dei vostri amici.
Siamo tutti intercambiabili, questa è la verità. Almeno da un certo punto di vista.
Da quale punto di vista ?
Da quello del Potere.
Infatti, con questi semplici esperimenti possiamo persuaderci personalmente di ciò che meglio di me ci hanno già spiegato in tanti: dal Canetti di Massa e Potere al Marcuse di L’Uomo a una Dimensione, dal Debord di La Società dello Spettacolo a tutto Pasolini, e poi tanti grandi narratori contemporanei – Bellow e Pessoa tra gli altri – e poeti come De André.
E cioè – ecco la morale – che dal punto di vista del Potere e secondo gli interessi veri che muovono la vita di tutti, un soggetto di nome Paolo Andreozzi, nato cresciuto eccetera, semplicemente non ha i requisiti minimi di realtà.
Che ciò che è reale – a questo livello di lettura – è l’entità “collettiva” che gode di uno stesso “paradigma di status” (qui facebook non c’entra) economico e sociale: l’entità, per esempio, incarnata in quella “cosa” che si vede prima nei due scatti sui bambini e poi, “cresciuta” di qualche anno, nei due scatti sui ragazzi.
Mi spiego, e sgombro il campo da equivoci.
Il Potere è esercitato da persone, d’accordo: non da soggetti alieni o soprannaturali. Però converrete che si tratta di persone un po’ particolari: abituate a prendere decisioni per migliaia o per milioni di esseri umani.
Che si tratti di un manager finanziario, di un analista di procedimenti informatizzati, di un comunicatore di massa o di un leader politico – chi decide, vede tutti gli altri semplici cittadini un po’ come ognuno di noi può osservare il territorio sopra cui sta volando a bordo di un aereo di linea: rilievi o avvallamenti, fiumi e strade, paesi o campi coltivati, un panorama che rivela alcune differenziazioni interne ma che è praticamente uguale al resto del territorio per un certo raggio intorno a vista d’occhio. Chi governa l’andamento di un ciclo economico pluriennale su milioni di produttori-consumatori non può certo mettersi a riflettere su cosa io, tu, tu e quell’altro, ci aspettiamo davvero dai prossimi anni in termini di soddisfazione personale: figurarsi ! Né, d’altro canto, può più permettersi di comandarci scopertamente a bacchetta – almeno dalla Rivoluzione Francese in avanti, in questo quadrante del mappamondo.
La statistica – o meglio: una forma raffinatissima di algoritmo ricorsivo sui grandi numeri e un’infinità di parametri, che si chiama appunto Teoria dei Giochi e delle Decisioni – verrà, ai decisori di ogni rango, in valido e consolidato aiuto.
Per usare una sequenza famosa: quando un rappresentante dell’élite che conta davvero ha davanti a sé noi gente comune, la risolve in un’immagine molto simile a ciò che si svela agli occhi di Keanu Reeves verso la fine di Matrix – un flusso costante di informazioni quantitative da elaborare secondo standard ottimizzati e in continua verifica e attuazione. Una pioggerellina di numeri e lettere dell’alfabeto.
Stringono le mani, tengono una conferenza stampa, si fanno intervistare, ridono, fanno le corna, sono preparati, ambiziosi, simpatici, sprezzanti – niente di tutto ciò è autentico, spiacente deludervi: gli uomini del Potere semplicemente simulano ciò che per noi è la quotidianità reale. Mostrano, giacché noi tutti odiamo e amiamo, di amare qualcosa (una squadra di calcio, per esempio, o il sesso) o qualcuno (una mamma, un figlio), di odiare qualcuno (un avversario politico) o qualcosa (il destino dell’esser traditi, o pelati), così che noi non li sentiamo alieni.
Lo mostrano, ma in realtà non provano né odio né amore: calcolano, e basta. Calcolano le probabilità oggettivamente favorevoli al mantenimento e l’ampliamento del potere che incarnano, tutto qua.
Tra l’altro li aiuta il fatto che noi siamo di continuo e letteralmente bombardati da segnali che dicono l’esatto contrario.
Hollywood, tra i tanti, è un antico e potentissimo veicolo di questa “normalizzazione” dell’uomo potente agli occhi delle masse: ricordate Bogart in Sabrina ? E il Richard Gere di Pretty Woman ? Fantastico, come sia facile essere sedotti dalla versione intenzionalmente fiabesca dell’effettivo quadro dei rapporti sociali.
Per non parlare del gossip: è grazie al gossip che noi “uomini della strada” divoriamo (crediamo di divorare) la vita “privata” dei decisori, i quali fingono di dolersene. E invece progettano nel dettaglio la costruzione della propria immagine gomito a gomito coi loro stessi “sputtanatori” (a libro paga). Non a caso la televisione non è diventata che uno sterminato pettegolezzo.
Concludo.
Per il Potere, l’individuo semplice non può uscire dai ranghi – e perfino le differenze radicali tra un individuo e l’altro, viste da lontano, sono una conferma del permanere nei “ranghi” della massa considerata nel suo insieme.
Questo perché l’élite al comando non corra il rischio di perdere il proprio ruolo: perché in sella restino i “decisori”.
Ma chi sono questi ? Facciamo dei nomi ? Li conoscete già.
Diciamo: il direttore generale della tua azienda, meglio ancora il consiglio di amministrazione della banca che la controlla. Diciamo: il capodipartimento della tua pubblica amministrazione, meglio ancora il gabinetto del sindaco o del presidente. Diciamo: i capigruppo di Camera e Senato, i segretari e presidenti di partito; diciamo tutto il governo, le sue agenzie e i loro consulenti, noti e ignoti; i vertici nazionali dell’industria, del fondo, del commercio e del credito; i direttori dei maggiori organi d’informazione, pubblica e privata, meglio ancora i loro editori diretti o di riferimento; i proprietari, e i relativi “think-tank”, delle imprese per la produzione e distribuzione dei beni alimentari, dell’acqua potabile, dell’energia, dell’innovazione tecnologica; gli affiliati di un certo livello a lobbies – di ogni natura, lecite o meno – interessate a orientare l’opinione della gente; i grandi e grandissimi brokers, financial traders e simili; gli alti e altissimi esponenti del clero, degli apparati militari, dei servizi segreti; la cupola – o le molte cupole – del grande crimine organizzato. Diciamo: una quantità di persone che non abbiamo mai visto né sentito nominare, che si conoscono solo tra loro, e stanno dietro alle facce da avanspettacolo dei “potenti” esibiti al grande pubblico all’ora di cena.
Diciamo: un sacco di persone. Ma neanche uno di noi qui.
Perché noi qui dobbiamo essere un’altra cosa, e non élite: dobbiamo essere, e continuare a voler essere, dei perfetti produttori-consumatori. Così come nel corso della Storia siamo stati schiavi, per esempio, o sudditi-soldati. La novità dell’evo contemporaneo è che ora non basta più che l’uomo sia massa, ma che desideri esserlo: è la democrazia, bellezza !
Altrimenti il sistema salta, tutto quanto.
Il Potere vuole con ogni mezzo che ognuno di noi si ponga come obiettivo (a seconda della nostra età e della nostra fascia socioeconomica) il perseguimento di una “meta” tra queste: fare carriera, non perdere un’occasione di avanzamento anche a costo delle amicizie vere e dell’antica lista di valori etici, replicando all’infinito il “racconto” della felicità scambiata con il conformismo, oppure vivere da emarginati, odiare gli altri e il sistema tuttavia alimentandolo inconsapevolmente buttandosi a capofitto sulla “mercanzia individualista” preparata allo scopo, e predisponendosi ai lavoretti sporchi all’occorrenza – che al Potere servono come il pane..
Integrati o apocalittici, direbbe Eco, in percentuale diversa – ovviamente preponderanti i primi, residuali i secondi – ma tutti indispensabili all’avanzamento del piroscafo globale: tutti in sala macchine, di qua o di là.
Aut aut: questo è il confine della nostra libertà, tutta qui, secondo il Potere.
Questa la lunghezza del nostro guinzaglio. Non un metro di più. Alla faccia dei sogni d’infanzia, dei progetti dell’adolescenza – di desideri così nostri e diversi per ciascuno.
Bene. Allora bisognerà tenderlo, quel guinzaglio, fino a lacerarlo: che si strappi, che ci si liberi davvero.
Prima condizione per riuscirci: la conoscenza, il sapere. Seconda: la condivisione – non per fare massa, ma per essere uomini.
Allora noi scriviamo per questo, non siamo qui che per questo.